S.E. Card. Gianfranco Ravasi
Dalla presentazione in catalogo della Mostra “Maranathà”, Santuario Madonna di Loreto – Osnago 1989
« “Per me un quadro deve fare scintille. Deve abbagliare come la bellezza di una donna o di una poesia. Deve emettere raggi come le selci che i pastori dei Pirenei usano per accendere le loro pipe.” Con queste parole il famoso pittore surrealista ed astratto spagnolo Joan Mirò nella sua autobiografia artistica Lavoro come un giardiniere ha tentato di definire quella sensazione “ineffabile” che si prova davanti ad una vera opera d’arte. Un bagliore che illumina la mente, una scintilla che attraversa l’occhio e corre diritta al cervello per esplodere nello spirito. E non solo nello spirito di un critico d’arte o di un altro artista ma nello spirito di ogni persona che sa mettersi in “contemplazione”: è suggestivo che nella lingua della Bibbia il verbo ebraico usato per indicare il “contemplare” significhi letteralmente “scavare”, “perforare”. La scintilla si accende in tutti coloro che sanno, nella contemplazione dell’opera d’arte, scavare oltre l’immediato alla ricerca di quel seme d’infinito che è la creazione artistica.
Noi scriviamo appunto queste note non perché siamo critici o colleghi d’arte ma solo perché davanti alle opere di Alberto Ceppi abbiamo sperimentato la sorpresa di quel bagliore, di quella misteriosa scintilla e vorremmo che altri vivessero la stessa esperienza. La vivessero magari attraverso l’itinerario suggerito dallo stesso autore in questa mostra che è una specie di confessione in pubblico, una vera e propria autobiografia di un uomo, artista, credente. Noi preferiamo interpretare questo itinerario personale come una parabola che, invece delle parole, si affida alle sculture, alle vetrate, ai mosaici, ai dipinti.
All’inizio di questa storia c’è un uomo seduto su una poltrona nel salotto buono di una casa. Come direbbe il poeta Giorgio Caproni, a prima vista egli sembra un uomo solo, davanti al vuoto, coi suoi torti, le sue ragioni, pronto a parlare di eventi finiti, simili a foglie galleggianti sulla palude del passato. Ma ecco, il pensiero miracolosamente si materializza, anzi si personifica. Appare la casa in cui si è vissuti, la natura che ci ha circondati, la donna che si è amata, il Dio in cui si è creduto. Tutto questo è un po’ come l’antefatto della storia ed è tutto concentrato in quello stupendo compendio simbolico che è la scultura Ricordi del 1975.
Quel pensiero contiene, quindi, tutta la storia di una vita in cui tutti ci possiamo specchiare, una vita che è spesso simile ad un tunnel oscuro il quale, però, non approda all’estuario del nulla ma ad un germoglio che fiorisce, come ci insegna un altro bronzo, Il cilindro. È un aggirarci tra rovine e grovigli ma non da soli, con qualche altra presenza. Soprattutto con la Presenza per eccellenza, quella dell’infinito, del divino, del mistero che Ceppi rappresenta con un simbolo che diviene quasi la sua firma, la sua sigla spirituale ed artistica: la scala. Essa appare già nell’opera citata Ricordi ma affiora ininterrottamente: Scaffale del poeta, Sogno, Colloquio, Conchiglie, Nel mistero della pienezza del tempo, Omaggio al Card. Mindszenty etc. Sono proprio quelle “Scale di luce” che lo scrittore francese B. Cendras aveva usato come simbolo per definire l’arte di un altro, celebre pittore,Marc Chagall.
“Giacobbe fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa”. Questo passo della storia del patriarca Giacobbe, narrato dal libro della Genesi (28,12), potrebbe essere la matrice ideale di quella “firma” di Ceppi.
Le sue scale, infatti, sono, si, poggiate sulla terra, ancorate al quotidiano, ma non hanno un approdo visibile, si perdono nei cieli, nella luce o si protendono verso una nube misteriosa. E l’angelo, che è il segno di questo infinito divino, appare ripetutamente anche nel racconto di Ceppi. Ora è un angelo imprigionato Tra le rovine, ora è libero e sospeso nelle terrecotte, negli smalti e nelle tempere, ora è lacerato e trafitto perché evoca il mistero del bene e del male che è in noi per cui l’angelo può trasformarsi in satana, senza però mai perdere le ali dell’infinito.
Ma, seguiamo ancora le “riflessioni” di quell’uomo seduto a meditare. Continuiamo a vederne la loro concretizzazione, il loro farsi realtà e storia. La prima “incarnazione” è quella della creazione, una vera e propria teofania che Ceppi rappresenta con un trionfo di colori, quasi come se fosse un’Esplosione cosmica, affidata talvolta anche alla magia e alla trasparenza del vetro. Una creazione che conosce, come si è detto, il rischio supremo della libertà: “Davanti agli uomini stanno la vita e la morte, a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà”. Sono le parole di un sapiente dell’Antico Testamento, il Siracide (15,17); esse si coniugano con quelle di Paolo nel c.7 del suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, e tracciano il ritratto dell’uomo diviso tra il bene e il male. E il bene e il male è appunto il titolo della scultura dell’angelo trafitto e diviso che è in noi che abbiamo sopra evocato.
All’orizzonte della creazione appare, però, la luce sorprendente dell’amore. È questa quasi la seconda tappa della parabola narrata da Ceppi. L’uomo di tutti i tempi e di tutte le regioni del nostro pianeta si sveglia, come Adamo, dal suo torpore ed ecco, davanti a Lui, la sua donna, “carne della sua carne, osso delle sue ossa”, come dice la Genesi. Essa ha il volto dell’incantevole donna del Sorriso che sembra essere quasi la donna del Cantico dei Cantici: “Come sei affascinante, mia amata, come sei affascinante! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo; le tue chiome come un gregge di capre… Come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è soffusa di grazia; come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il tuo velo” (4,1-3). E il Cantico dei Cantici sembra essere quasi la filigrana di questa fase della storia di Ceppi.
Nel Bosco di agapantus sembra, infatti, di intravedere la stanza nuziale cosmica celebrata dal Cantico: “Il nostro letto è verdeggiante, i cedri sono come le colonne della nostra casa, i cipressi il nostro soffitto” (1,16-17). Al melograno, simbolo di fecondità e di tenerezza del Cantico, Ceppi sostituisce la più semplice ma simbolicamente identica pannocchia. Ma come nel Cantico, sul letto dell’amore umano è sempre accesa la lampada dell’Amore divino (Sopra di noi) e, come nel Cantico, anche qui l’amore sfida la morte, il nulla e il caos perché sa di essere iscritto nel “libro di vita” di Dio: “Forte come la Morte è Amore… Le sue vampe sono fiamme di fuoco, una fiamma del Signore! Le grandi acque non possono spegnere l’amore né le fiumane travolgerlo” (8,6-7).
Paul Klee, celebre pittore svizzero, scriveva: “L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile ciò che non lo è”. La storia di Ceppi vuole ora rendere visibile il mistero invisibile della fede, entrando nella Chiesa. Ecco davanti a noi un bellissimo portale che sta per essere spalancato. Il suo legno, caldo e semplice, ci parla di una casa antica ed accogliente; le sue terracotte sono la nostra rappresentazione di essere tratti dalla polvere della terra, costruiti come “tende d’argilla” (Giobbe 4,19); i chiodi di quella porta sono fatti di quel ferro aspro che segna la nostra vicenda quotidiana, ma l’albero che si stampa su quei battenti e gli anelli trinitari che li dominano dall’alto sono di bronzo e ci parlano dell’eterno, proprio come i piedi del Cristo dell’Apocalisse che “aveva l’aspetto del bronzo splendente purificato nel crogiolo” (1,15).
Spalancato il portale ecco il Cristo che ci accoglie con la sua presenza e con tutti i segni sacramentali delle chiese che finora Ceppi ha ornato con la sua arte: dal fonte battesimale all’altare al tabernacolo. È qui, nell’interno del tempio, dell’invisibile fatto visibile, nel cuore dell’eterno incastonato nel tempo che l’uomo legge la Bibbia cristiana. Cinque sono le pagine che si animano e si illuminano. Il citato pittore ebreo russo-francese Marc Chagall, quando decise di far diventare la Bibbia uno dei temi fondamentali della sua pittura si recò in Israele, la terra della Bibbia. “Non molto tempo fa – egli scrisse – sono andato a Gerusalemme per ispirarmi e per verificare lo spirito biblico ma è a Parigi che sono venuto per fare la mia Bibbia”. È nella propria città, nei rumori, nelle miserie e negli splendori del quotidiano che la Bibbia deve rinascere ed incarnarsi. Anche per Ceppi le cinque pagine si colorano e si animano nella quotidianità: così, ad esempio, il sangue di Cristo nella passione e nella crocifissione si effonde e coinvolge anche il sangue dei donatori dell’AVIS per i quali egli ha preparato un altare. Oppure quella stessa passione si allarga anche nella figura del card. Mindszenty, emblema della sofferenza del popolo di Dio. L’annunciazione a Maria si trasforma anche nella speranza che la donna rappresenta nel mondo; la natività di Cristo si esprime e si incarna nella nobiltà della vetrata e del mosaico ma anche nella povertà del legno e della terracotta.
Il pane dell’eucarestia è il polo di attrazione attorno a cui, come in un vortice, si annodano tutti i colori dell’essere e della vita in un incantevole caleidoscopio.
Ma è con la pagina finale della Risurrezione che si condensa non solo tutta l’attesa umana ma anche tutta la Rivelazione biblica. Nei vari pannelli di terracotta, quasi come in una corolla di immagini, sfilano Giona “risorto” dal pesce, Ezechiele con la sua impressionante visione degli scheletri che risorgono (c.37), Isaia col suo annunzio che “di nuovo vivranno i morti, risorgeranno i cadaveri, si sveglieranno ed esulteranno quelli che giacciono nella polvere perché la tua rugiada è rugiada luminosa e la terra darà alla luce le ombre” (26,19). Passa ora davanti a noi anche Daniele con la sua promessa che “quelli che dormono nella polvere della terra si sveglieranno e i sapienti risplenderanno come lo splendore del firmamento” (12,2-3). Passa Giobbe con la certezza che “il mio Vendicatore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere; dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero” (19,25-27). Sfilano Lazzaro, la figlia di Giairo, la Maddalena, i discepoli di Emmaus, gli apostoli sul lago di Tiberiade con gli occhi stupiti davanti al Cristo risorto…
Si chiude qui, in questo orizzonte di luce, la parabola scaturita dalle “riflessioni” di quell’uomo seduto che Ceppi ha posto in apertura alla sua mostra e i cui pensieri ha fatto diventare personaggi, attori, realtà vive. Ma per seguire questa storia che ora abbiamo raccontato è necessario scoprire un’atmosfera, quella in cui Ceppi ha immerso il suo racconto di arte e di vita. È un’atmosfera “santa” che rimanda continuamente all’infinito, oltre il limite degli oggetti; è con questa atmosfera che le singole opere diventano segni di un mistero ulteriore.
Pavel Florenskij, il “Leonardo da Vinci” russo del ‘900, grande matematico, filosofo e teologo, descriveva suggestivamente questa atmosfera a proposito delle icone, la tipica espressione dell’arte russa. Abbandonate alla piattezza di un museo, esse si spengono e sembrano opere seriale persino fredde; messe invece in un tempio ed avvolte dal tremolio dei ceri e dalle volute degli incensi e dei canti si trasfigurano. “L’oro barbaro e pesante delle icone – scriveva Florenskij- in sé futile alla luce del giorno, si anima con la luce tremolante di una lampada o di una candela facendo presentire altre luci non terresti che riempiono lo spazio celeste”. È questa l’atmosfera, è questo lo “sguardo” che noi auguriamo anche alle opere di Alberto Ceppi.»